III

IL TONO MEDIO DELLE «SATIRE»»

Quando si parla delle Satire ariostesche, per allontanare subito il sospetto mutuato dalla critica romantica e postromantica di una loro documentarietà puramente autobiografica, di una immediatezza psicologica, occorre accertare la loro natura essenzialmente artistica, la loro vita su di un piano letterario, l’intenzione poetica che fece i suoi conti con una tradizione e portò una novità stilistica, non una semplice colorazione di contenuto. Ciò serve a nobilitare, non ad appesantire le Satire, serve a sottrarle ad un senso di inferiorità per cui troppo spesso vengono adibite a semplice surrogato di una biografia del poeta: alla quale poi offrono ben poco di sicuro al di là dei documenti che gli storici hanno messo in luce. Ed anzi la deformazione stessa di alcuni avvenimenti nelle Satire può confermare la tesi ragionevole che là non si trattava di pure «confidenze» epistolari o di seria autobiografia, ma di una costruzione poetica in cui gli elementi autobiografici sono utilizzati a fini estetici, rivivono in un’atmosfera, in un tono che non sono un loro semplice alone, ma che il poeta coscientemente elabora con un suo intento artistico, mediante quegli elementi, disponendoli, deformandoli, introducendoli saltuariamente e con luci diverse, impastandoli con fiabe e con pacati esempi di saggezza umana e di misura poetica. Tutt’altro che casuale riflesso qua e là luccicante di materia prosastica assunta nel suo valore documentario, la poesia, il tono medio poetico delle Satire è frutto di una intenzione, di una poetica che ha chiari i propri riferimenti culturali, la propria volontà formale.

La satira (e si noti che questo parlare di un «genere» presuppone naturalmente la svalutazione crociana, ma implica il riconoscimento storico di un atteggiamento cinquecentesco inevitabilmente calcolabile in una storia di cultura letteraria, in una storia di poetica entro cui non si può ignorare come gli artisti di quell’epoca sentissero vivo il genere e vi cercassero una particolare tradizione superandola se geniali, ma comunque tenendone il massimo conto) ci porta, come il teatro, ad indicare la novità ariostesca in un campo stilistico, nel classicismo volgare che vuol superare i tentativi piú alessandrini e popolareggianti della letteratura quattrocentesca, e ci porta insieme a sottolineare la sua adesione a motivi letterari, a forme, a strutture espressive che si venivano concretando in quell’inizio di secolo. È noto che dopo un esercizio medievale di satira latina e volgare (Orazio era apparso soprattutto come «Orazio satiro»), antifemminile, antifratesca, antimperiale, o sentenziosa e profetica, nel Quattrocento un piú diretto contatto con i latini, Giovenale e Persio principalmente, aveva convalidato su di un piano piú tecnico (le imitazioni furono abbondanti anche in latino nella vicinanza maggiore possibile con i modelli umanisticamente riportati a modelli di vita solo attraverso la perfezione formale: cosí il ferrarese Tito Vespasiano Strozzi nel suo Sermonum liber) la tradizionale predilezione per un discorso poetico capace entro una suggestione generale di toni vari, tra burleschi e violenti, tra familiari e moraleggianti. Mentre per opera di poeti oscuri e prosastici la terzina veniva ripetutamente adibita a canzoni morali, a satire, a capitoli (Vinciguerra, Sasso, Sommariva, Accolti) che l’Ariosto dové risentire, specie nell’ambiente ferrarese in cui operava il Pistoia, riallacciando un’esperienza piú popolare e burlesca con la tradizione oraziana e creandosi uno strumento adatto alla sua saggezza poetica, al suo gusto di esperienza vitale e di agio letterario. I Sermones oraziani (uno dei libri letterariamente piú validi nella tradizione italiana almeno fino al Settecento) lo impressionarono non tanto per il loro carattere di invettiva (piú forte semmai negli Epodi) quanto per il loro tono discorsivo, pieno di punte argute smorzate volontariamente, in un’atmosfera sorridente, ma non prosaica, in cui si operava una notevole conquista letteraria piegando la lingua ad uno stile come dice il Marchesi «ora familiare, ora solenne, mobile e vario, mordace e severo, e a quella affettazione di trascuraggine e alle volte di parlata volgare».

Certo quel gusto che va dall’amore della realtà nei suoi oggetti a una cadenza in cui l’esaltazione del «giusto mezzo» si traduce stilisticamente, quel passo poetico senza fretta ed ansia, misurabile magnificamente nel viaggio a Brindisi della V del I libro, quel sapore di umanità che poi continua e si raffina nelle Epistulae, dovettero colpire l’Ariosto proprio nella sua ricerca di una saggezza umana, di una concretezza vitale tradotte in saggezza artistica.

Ma il poeta del primo Furioso (le Satire cominciano dopo la prima edizione del Furioso e quindi appartengono al periodo della piena maturità ariostesca) doveva sentire anche l’insufficienza dell’impostazione oraziana troppo divisa tra il ragionativo, il pittoresco e il prevalere eccessivo di una saggezza che in lui vuol essere qualcosa di piú personalmente risentito, di meno distaccato dalla possibilità di una soluzione fantastica, magari fiabesca ed ironica. Cosí nella Satira III, dopo la narrazione misurata ed essenziale dell’insuccesso alla corte di Leone X (il bacio sorridente del pontefice, il ritorno attraverso la Roma papale, col giubilo eroico del gabbato), i sentimenti tra bonari e sdegnati non rimangono su di un piano di querimonia o di consolazione discorsive, ma sfociano nell’apologo della gazza che canta le sue qualità smaglianti di brio, di evidenza, di fiaba, senza d’altronde arrivare a quella piena meditazione fantastica che esalta il sopramondo rinascimentale del Furioso.

L’impegno ariostesco nelle Satire, nella lontana suggestione oraziana (o meglio nel suggerimento di un tono medio non totalmente lirico e non prosastico), si lega intimamente non solo ai termini della geografia sentimentale ariostesca (bonarietà, amore di quiete, antiintellettualismo), ma al suo problema generale di toni letterari e vitali che, fuori della piena soluzione orlandesca, andava cercando piú minutamente e perifericamente nelle Commedie.

Non basta certo, come fece il De Sanctis, sviluppare la ricerca comica incentrandola in una commedia della propria personalità per ottenere le Satire, ma l’avvicinamento delle Commedie può essere un indice del tono tra fantastico e realistico (di sviluppo medio non altamente lirico da saggezza di esperienza a fantasia di fiaba e di esempio gustoso) che sta alla base delle ricerche stilistiche delle Satire: piú in profondo, proprio a contatto con un’esperienza vitale che nelle altre opere minori solo frammentariamente si rivela con tanta vivezza.

Nelle Satire lo stesso atteggiamento epistolare (atteggiamento artistico, non immediatamente pratico, ché nulla ci conferma una loro vera funzione di missive[1]) induceva piú facilmente ancora che nei Capitoli (alcuni dei quali possono essere considerati se non come satire mancate, come dei tentativi che non hanno trovato il loro tono migliore) l’autore ad un volontario attaccamento a motivi pratici fino al limite di una obbiettività che, al di là del cesello rinascimentale e dello scherzoso realismo quattrocentesco, è quasi la testimonianza volontaria dei valori primari istintivi delle cose come vivono nella nostra esperienza piú concreta e piú generale:

Bisognerieno pentole e vasella

da cucina e da camera, e dotarme

di masserizie qual sposa novella.

(I, vv. 64-66[2])

Cosí che le parole, senza il preziosismo di una precisione esteriormente classicheggiante, vengono calate tutte pregne della loro praticità entro un giro poetico che della prosa assume gli aspetti di sintassi piú nuda, non tanto per far rifulgere, come in Orazio, la perizia somma di una rozzezza apparente e di una perfezione sostanziale, quanto proprio per il desiderio di un ritmo nutrito della piú empirica espressività. E certo non si tratta di immediatezza documentaria, ma della creazione volontaria di un tono di immediatezza che vuole adeguare, o meglio, essere il tono della vita nel suo tradursi in un ritmo poco complesso.

A questa presenza apparentemente oggettiva delle cose si accompagna la presenza semplice e concreta degli elementi socievoli e sentimentali della vita in un senso di civiltà, istintivo, non barbarico, ma sincero e primario che si rivolge con sdegno contro gli eccessi e contro gli astratti moralismi. Donde l’ironia generosa di questi versi essenziali per l’intonazione umana delle Satire:

Tu forte e saggio, che a tua posta muovi

questi affetti da te, che in noi, nascendo,

natura affige con sí saldi chiovi!

(IV, vv. 40-42)

Ironia che arricchisce e avviva il mondo delle Satire con l’evidenza di motivi di sottostruttura, messi a spiegazione dell’agire umano: interesse, ambizione, egoismo, sesso, considerati come naturali ed ineliminabili[3].

Lungi cosí da un moralismo discorsivo o esemplare, un senso della vita non cinico e non credulo anima le Satire, le cui parti meno riuscite sono quelle in cui prevale un’intenzione puramente discorsiva e sentenziosa di riferimento libresco, di astratta saggezza convenzionale. Mentre la vera saggezza di esperienza si fonde facilmente con l’episodio personale, con la scenetta gustosa, acquistando un’evidenza che la fa svolgere coerentemente fino alle fiabe, fino a quegli autoritratti eroicomici che spesso rompono la possibile monotonia delle abbondanti terzine ed esaltano il tono medio delle Satire a punte ambiguamente drammatiche. E queste a loro volta contribuiscono a quel tono non puramente comico, di saggezza e di esperienza disillusa e sorridente, a quel ritmo che l’Ariosto volle creare fuori della trasfigurazione orlandesca:

gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo

mutando bestie e guide, e corro in fretta

per monti e balze, e con la morte scherzo.

(I, vv. 112-114)

Dove si assiste ad una specie di epica comica dell’uomo strappato alle sue occupazioni, alla vita intima, e scagliato in un ritmo esteriore che lo turba col suo martellare vertiginoso e lo esalta fino alla presunzione di un eroismo non desiderato.

Anche la natura, i paesaggi nelle Satire non ambiscono a trasfigurazioni soprareali né a motivi puramente pittoreschi ed entrano, apparentemente senza intenzione, come accenno utilitario, non descrittivo, diventando capaci di una nuda evidenza geografica, in realtà gustosa nella sua sobrietà essenziale, a cui l’Ariosto rimase fedele in tutte le Satire mostrando una sua volontà ben precisa di tono di concretezza. Non illustrazione e non ancora alta decorazione:

La nuda Pania tra l’Aurora e il Noto,

da l’altre parti il giogo mi circonda

che fa d’un Pellegrin la gloria noto.

Questa è una fossa, ove abito, profonda,

donde non muovo piè senza salire

del silvoso Apennin la fiera sponda [...].

(IV, vv. 139-144)

Un paesaggio cosí sobrio che sembra formare come il sostrato sicuro dei grandi paesaggi favolosi dell’Orlando, come i sentimenti tutti umani e sperimentati delle Satire formano la base concreta della libertà sentimentale del poema. Si pensi, per esempio, all’attacco del grande sogno geografico dell’Orlando come è presentano nella Satira III (vv. 55 ss.), in cui si gusta quel nascere di un sogno senza limiti e pure alimentato da esperienze limitate e concrete in un mondo di affetti e calore totalmente umano.

Tanto che si potrebbe dire sempre da un punto di vista ideale, non temporale, che le Satire costituiscono quasi la base sicura della soprarealtà fantastica dell’Orlando e la riprova della concretezza che sottende il piú sublime volo dell’Ippogrifo, la piú gratuita avventura musicale. Mentre d’altra parte le Satire segnano il punto piú alto a cui potesse giungere l’Ariosto sul piano non pienamente lirico su cui mirò nei Capitoli e nelle Commedie ad un discorso poetico medio che qui è stato realizzato vivo, coerente, aperto, capace di accogliere come massima concessione al canto, ma agevolmente organizzate in tutto il contesto, le fiabe flautate e sorridenti in cui una lontana aria di sapienza popolare insapora ancor piú la tipica saggezza, il ritmo facile delle Satire. Fiabe che vanno da gustosi apologhi come quello delle bestie al pozzo, a scherzi aneddotici come quello dell’anello miracoloso che assicura della fedeltà delle donne, fino a quelle fiabe perfette e divenute tutta immagine come quella della luna, il momento piú sottile e fantastico delle Satire:

Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,

credendo che toccassero la luna,

dietro venian con frettolosi passi.

(III, vv. 226-228)

Tono di fiaba che viene appesantito spesso nel corso delle Satire quando subentrano situazioni troppo particolarmente documentarie, sfoghi, richieste, brighe legali (che pure sono introdotte sempre a posteriori, fuori di un intento pratico immediato, come esagerazione di quel gusto di pezzo realistico per un discorso di tono medio), ma che di solito coincide e facilmente si salda con il discorso familiare e modestamente lirico in cui si presentano le sette Satire. Rapidi cenni di lettura ci permetteranno, fuori di un commento continuo ed esauriente, di accertare le linee con cui, riprendendo gli scarsi contributi critici dal De Sanctis in poi, ho cercato di precisare la poetica seguita dall’Ariosto nel suo lavoro.

La Satira I (ad Alessandro Ariosto e Ludovico da Bagno) ha il suo centro narrativo nel mancato viaggio in Ungheria e nella polemica con il cardinale. In realtà piú che una preoccupazione pratica che si rivelerebbe soprattutto negli accenni ai benefici donati e tolti, lo stimolo chiaro è il bisogno estetico dell’Ariosto di accordare i pretesti di scusa ed accusa su di un unico tono di giustificazione vitale personale, in un autoritratto non episodico, ma fondamentale di abitudini e di esigenze di quiete, di pacata fruizione di agi ed attenzione agli essenziali valori umani e al mondo della fantasia, ricavandone (e questo è lo scopo piú vero del componimento) un tono di serenità bonaria e lenta, tesa da punte di sdegno e di ironia, una musicalità modesta, apparentemente una cadenza discorsiva, una pasta non perfetta, porosa in cui le parole si posano né troppo accese né troppo uniformi, senza pretesa di predominio e senza eccessiva assimilazione.

Sí che mosse piú scivolate e uniformi nel loro pretesto discorsivo («Io desidero intendere da voi», v. 1) vengono rilevate nella loro continuità da riprese energiche («Dunque voi altri insieme, io dal matino [...]», vv. 61-63), da stacchi di suono quasi dantesco[4] («Io, per la mala servitude mia [...]», v. 85), da esaltazioni immaginose, pur sempre su di un registro poco clamoroso («se ben dicesse c’ha veduto il giorno / pieno di stelle e a mezzanotte il sole [...]», vv. 11-12), da versi scanditi con estrema nettezza; e d’altra parte ciò che prevale, al di là delle isolate vignette in cui a volte si coagula («E chi non ha per umiltà ardimento / la bocca aprir, con tutto il viso applaude / e par che voglia dir: anch’io consento», vv. 16-18), delle soluzioni movimentate da commedia in cui si precisa («Io mi riduco al pane; e quindi freme / la colera; cagion che alli dui motti / gli amici et io siamo a contesa insieme», vv. 79-81), è una diffusa e non esplicita comicità che conferma l’intenzione estetica dell’Ariosto che, mediante i dati di una polemica e di un’avventura sofferta, voleva creare un’atmosfera, un discorso poetico verificabile come tale nella sua costanza di intonazione, nei suoi particolari costruttivi.

L’intenzione di tono medio, di apparenza discorsiva, poco concentrato, dà poi luogo, come spesso nelle Satire, alla diluizione eccessiva dell’ultima parte che ritrova una finale conclusione, dopo un certo errare di orazione che non sa chiudersi, nell’apologo oraziano ed esopiano dell’asino di cui è soprattutto notevole l’attacco senza sforzo, l’introdursi agevole e cantato.

Nella seconda, al fratello Galasso, l’intonazione epistolare supera il giusto equilibrio della prima e la trama generale è piú pigra e dispersa, dando poi eccessivo rilievo allo spunto occasionale (la venuta a Roma per la bolla del beneficio di Sant’Agata) che non riesce a costruirsi un coerente sviluppo nell’atmosfera gustosa, troppo aneddotica, di satira dei costumi e delle ambizioni prelatizie che dovrebbe fare da sostegno a quel centro discorsivo.

Tutta la satira risente troppo di uno schema di varietà, di contrappunto blando, ricco di trovate piacevoli piú che di veri motivi. E in certo senso tutte le Satire vivono in questa distensione piacevole, poco accentrata e impetuosa, ma in questa la dispersione discorsiva si accentua, difetta uno stacco che altrove movimenta il ritmo, e d’altra parte si può dire che questa poetica approfondisce qui un procedimento di lente variazioni, di accostamenti smorzati, di arguzia poco incisiva. Immagini guizzano con una rapidità velata, quasi nascosta da una funzione ironica («a guisa de le serpi mutan spoglia», v. 3), pretesti di sorriso si trasformano in operazioni di abilità poco vistosa, quasi rallentate e meccaniche, come quel gesto, sorridente e trasognato nella sua aria automatica, di Pietro che «l’orecchia / a Malco allontanar fe’ da la chioma» (vv. 11-12), in cui non vi è solo uno scherzo, ma proprio la volontà di un effetto leggero, di realismo cosí semplice da divenir magico. E veramente in questo tessuto lento, bene si gusta quel sapore di «cose» senza trasfigurazione, che notammo in generale:

Provedimi di legna secche e buone;

di chi cucini, pur cosí alla grossa,

un poco di vaccina o di montone.

(vv. 25-27)

Quel sapore che fa pensare a certi versi belliani.

Antologicamente è la prima parte che è piú realizzata: piú debole è il brano dal verso 28 in poi, malgrado la caricatura di frate Ciurla con i vivaci particolari ferraresi, ed anche la scenetta romana di tinta patinata, giallastra, sottolineata nel suo carattere di stampa gustosa dall’introduzione della frase spagnuola, è slavata e le giunture fra pezzo e pezzo sono buona spia di una certa fiacchezza monotona anche se capace di una vaga, tenue suggestione. Fiacchezza monotona che si accentua man mano che si accrescono i particolari del duplice scopo del viaggio (gusto documentario che decade oltre il suo sano ufficio di sostegno concreto al tono delle Satire) e si rinsangua nella parte dal verso 142 in poi, nella esaltazione della libertà personale, nella satira delle ambizioni. L’andatura è al solito squisitamente stanca, ma resa piú sanguigna dai rapidi cenni di colore (la Roma fumosa), dai bonari scorci di avventure che dànno quel senso superiore di esperienza tranquilla e sicura («La maggior cura che sul cor gli calchi / è che Fiammetta stia lontana, e spesso / causi che l’ora del tinel gli valchi», vv. 169-171) che può appena tingersi di toni piú decisi e combattivi («trionferà, del cristian sangue sozzo», v. 222) mantenendosi in una mancanza di rilievo che in parte è fiacchezza, in parte è volontario smorzamento di accenti lasciati vibrare brevemente e spenti in vista di un tono che in questa satira sembra sperimentarsi nel suo massimo limite discorsivo.

Certo questo tono di discorso poco impegnativo e variato un po’ pigramente giunge spesso anche al suo grado deteriore quanto piú si nutre di intenzioni generiche di satira di costume e manca di quella cellula germinale di esperienza limitata che è come la «situazione» indispensabile a questa costruzione ariostesca. Cosí quasi interamente nella Satira V, in cui la satira sulla vanità delle donne e i pericoli del matrimonio, pur avvivandosi di una sorridente saggezza tradizionale e della tipica misura non conformista dell’Ariosto, e della fiaba finale che suggerisce il ricordo di altre fiabe erotiche dell’Orlando nei brevi termini di un sogno condotto con estrema facilità realistica, si esteriorizza quasi pedantescamente in un brio discorsivo e in un gusto caricaturale eccessivi e sfocati.

Esempio invece della piú complessa ricchezza delle Satire, esempio di quella musica media che la II realizzava in un eccessivo smorzamento, è la Satira III che si svolge, attingendo nuovo sapore di freschezza e di fantasia da due fiabe, intorno ad alcuni nuclei di rappresentazione essenziali alla ispirazione delle Satire.

Vi è un’armonica presenza delle risorse piú sicure di questo tono poetico: la possibilità del fiabesco, la possibilità del ritratto comico e saggio, si integrano nel tono misurato, intimo alla memoria di una esperienza non illusoria, lontano da ogni acredine moralistica o dal falso brio di una cicalata da divertimento. Già l’inizio mostra un periodare poetico complesso e concreto, rinforzato da mosse “di parlato”, nutrito da richiami senza sforzo a favole mitologiche e popolari su di uno stesso piano di saggezza rivissuta e tradotta in stile. Donde tutto uno studio accurato di evitare urti pur senza ricercare una fluidità troppo rapida ed anzi attribuendo il carattere di svolgimento discorsivo ad uno sviluppo di tono che si regge, si varia, si scioglie, non appena sembra eccessivamente addensarsi, in canto tra fiabesco e popolaresco sempre pronto ed agevole: «Mal può durar il rosignuolo in gabbia / piú vi sta il gardelino, e piú il fanello; / la rondine in un dí vi mor di rabbia» (vv. 37-39).

Ricerche tecniche insospettate di solito in questa poesia apparentemente sciatta e documentaria (si noti, senza paura di bremondiane sottigliezze, l’insistere equilibrato sui suoni consonantici iniziali al v. 49: «E piú mi piace di posar le poltre», o l’accordo fonico squisito dei vv. 69 e 72). Uso sapientissimo di sfumature sentimentali appena accennate a prolungare e sensibilizzare la eco di un momento gustoso, mosse energiche e rapide («io no, che poco curo questo e quello», v. 42), poste all’inizio di movimenti lenti di apparente mimesi realistica e di sostanziosa concretezza familiare («In casa mia mi sa meglio una rapa / ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco, / e mondo, e spargo poi di acetto e sapa [...]», vv. 43-45), detti popolari adoperati ad una maggiore festività («a chi piace la chierca, a chi la spada, / a chi la patria, a chi li strani liti», vv. 53-54), ingenuità di cantastorie che celano intenzioni di gusto di prospettive nude, poco colorite («Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna», v. 58), tutto concorre, e non certo per ingenua fortuna, a creare una poesia ricca e non confusa, senza pretese liriche, ma piena di una sobria suggestione, capace di impressionare entro una cerchia limitata di sensazioni familiari, concrete, nitide, vitali.

Impressione che, insistiamo, è effetto di ritmo, di calcolo, di poetica: e si prenda ancora un particolare di questa satira, l’immagine dell’interno casalingo in cui il poeta curvo sulle carte crea viaggi di fantasia che si realizzano rapidamente in quel viaggio per mare, illuminato da un lampo che apre una rapida visuale sapientemente burrascosa in quella calma quiete evocatrice. Non è una generica facilità briosa di discorso in versi (come in tanti capitoli cinquecenteschi) che può dare questo risultato, ma un preciso impegno e precisi accorgimenti stilistici: la pacata intonazione popolaresca, la doppia rassegna geografica i cui ritmi enumerativi vengono interrotti da rapide conversioni affermative («a me piace abitar la mia contrada», v. 57), preparano la scena centrale cosí raccolta e suggestiva, precisa ed agile di cui il finale «volteggiando» sembra il simbolo sinuoso e disteso.

Chiusa questa parte con un verso di nostalgia sentimentale che prolunga l’eco di questa poesia intima piú efficacemente di tanti loci communes petrarchistici («onde mai tutto partire / non posso, perché il cor sempre ci resta», vv. 71-72), si apre la parte di atmosfera romana e papale, iniziata con un motivetto di falsa solennità in cui i particolari dell’amicizia di Leone X si seguono con una certa lentezza ed unzione ecclesiastica:

mi disse che al bisogno mai non era

per far da me al fratel suo differenza.

(vv. 101-102)

Unzione che si scioglie piú brillante in uno scherzo pure di intonazione ecclesiastica e si sfa nel preambolo modesto e sommesso alla favola della gazza. Ampia, suadente, scorrevole all’inizio, tanto da ricordare l’inizio flautato e soffice dell’episodio della valletta del silenzio nell’Orlando, la fiaba diviene poi piú precisa, comicamente ansiosa fino al grido e alla decisione finali, senza perdere mai la conclusività facile e leggera che arieggia la divina musica del poema (il verso 114 sembra un finale di ottava: «tutti passar si potean senza ponte»).

Fuori del clima fiabesco, ma perfettamente coerente all’intonazione della satira è poi la scena di Leone X, iniziata con una potente ed ironica conferma di questa poesia di esperienza («Testimonio sono io di quel ch’io scrivo», v. 175) e svolta nel movimento gioioso della figurina papale che si piega e applica due baci in un’aria piena, pontificia, rotonda a cui una mimesi stilistica efficacissima (si noti la pienezza lenta di quel: «piegossi a me da la beata sede», v. 178) trova un esito perfetto. Come perfetto risultato di questa poetica di musica media è la seconda fiaba, aperta dopo battute piú deboli e puntuali (come quella di Iona che colpisce per la sua episodicità pungente) ad esaurire la parte piú vitale della satira. Questa favola della luna è piú libera della prima, meno funzionale, piú spaziosa con quello sfondo sottinteso di notte lunare (ma la suggestione non parte da un descrittivismo che abbiamo detto inesistente nelle Satire), con quell’aria di ingenuità favolosa, di mondo separato e pur cosí umano, resa dal giuoco delle grandi ombre campite sullo sfondo della luna, dalla corsa fantastica terminata con la caduta burattinesca accentuata grottescamente dalle rime in ú.

Vedendo poi non esser giunti piú

vicini a lei, cadeano a terra lassi,

bramando in van d’esser rimasi giú.

(vv. 223-225)

Un senso di vita non fanatico e non distratto trova qui la traduzione sorridente e musicale della sua saggezza, in un risultato che s’inquadra in tutto un componimento continuo piú di quanto il tono stesso discorsivo delle altre Satire non sembrasse richiedere e non ottenesse.

Se prendiamo infatti la IV, tutta fondata su contrasti ampi e dotata quindi di uno schema strutturale assai forte ed unitario (contrasto fra il mondo agitato e inferiore della legge, degli affari e quello della poesia, fra quello del moralista e quello dell’uomo concreto, fra un paesaggio sereno e una realtà inamabile), troviamo tuttavia parti deboli connettive, di brio esteriore, macchiettistico, su cui si alzano momenti non eterogenei, ma diversamente alimentati: cosí la parte iniziale, tutta mossa da una linea arguta che sbocca nello scherzo dell’uccellino e nell’ampio accenno amoroso che sale in aria di madrigale canoro, dopo un verso che gode delle sue parole belle a pronunciare nella lettura poetica:

e da neve, alpe, selve e fiumi escluso

da chi tien del mio cor sola la briglia.

(vv. 23-24)

Cosí il canto del ricordo giovanile collegato al senso della poesia come serenità[5] in un idillio di rinascimentale nitidezza che conferma la sorgente essenziale di questa poesia poco abbandonata o facilmente autobiografica. Nel giro creato da un primo verso piú nostalgico entrano, con il procedimento già osservato, le entità care, i luoghi della memoria lucida e appassionata, con la loro netta evidenza, senza aloni, perfetti ed armonici: la bella stanza, il fresco rio, il lucido vivaio, la ben posta torre: un paesaggio sobrio in cui l’occhio del poeta pacato, ma non freddo, contempla cose care e conosciute nella loro proporzione vitale senza l’ansia torbida di tante nostalgie romantiche, soddisfatto nel creare un giro di armonia che è armonia di esperienze organiche, non gusto pittoresco né piatta fotografia:

il fresco rio che corre,

rigando l’erbe, ove poi fa il molino

(vv. 122-123)

Erano allora gli anni miei fra aprile

e maggio belli [...].

(vv. 130-131)

E da sensazioni calde di movimento vitale, di pienezza umana, dirette a un ritmo gustoso e sereno nasce il terzo momento piú intenso: la movimentata sequenza di immagini di vita brigantesca e giudiziaria:

accuse e liti sempre e gridi ascolto,

furti, omicidii, odi, vendette et ire [...].

(vv. 146-147)

Tumulto avventuroso ed eroicomico di azioni affrettate, di trapassi rapidi di luci («or con chiaro or con turbato volto», v. 148) che sullo stesso piano delle fiabe prende un ritmo piú miniaturistico di opera buffa:

Qui vanno li assassini in sí gran schiera

ch’un’altra, che per prenderli ci è posta,

non osa trar del sacco la bandiera.

(vv. 157-159)

C’è dunque nelle Satire, in una sostanziale comunanza di origine, posto per sfumature diverse, ma coerenti e vive quanto piú lontane da toni generici o pettegoli di satira moralistica come avviene in gran parte nella VI al Bembo, ricca di interessantissimi indizi dell’atteggiamento umano e poetico dell’Ariosto (nei riguardi della cultura greco-latina, della religione tradizionale, della missione civilizzatrice della poesia), ma scarsamente capace di amalgamare la satira tradizionale di tipi umani e gli abbondanti riferimenti culturali con l’elemento piú vivo: l’affetto paterno per Virginio e il ricordo della gioventú, che vengono utilizzati saltuariamente in un tono discorsivo che riproduce per imitazione meccanica quel tono medio altrove realizzato con vera forza poetica.

Nella VII al Pistofilo, l’Ariosto volle reagire ad una dispersione orizzontale mettendo nel mezzo una favola e tenendo tutta la satira entro un numero di versi inferiori al normale. Iniziata con la brusca apparenza epistolare in un lungo periodo, e poi mossa soprattutto dall’accenno tra popolaresco e proverbiale («se vuoi che l’augel caschi ne la ragna», v. 27) che suscita le qualità piú liete di questa poesia nell’ininterrotto movimento di felicità inventiva, di immagini festose come in un fuoco di scherzo sempre lucido che si supera nel raccourci piú musicale che visivo (si confronti con la III) del saluto papale. Sí che la favola della zucca e del pero è solo la continuazione piú libera e fantastica di un ritmo già felicemente avviato, di una esperienza già tradotta nel suo senso di saggezza provata. Dopo la favola che è la meno profonda delle fiabe delle Satire, ma la piú agile e scorrevole, con clausole ben levigate, con membri sciolti, snodati, con un discorso fluente e superficiale, un nuovo motivo poetico giunge sino alla fine della satira trascolorando da una beata immagine rinascimentale di Roma a una nitida evocazione di Ferrara. Quanta cordiale semplicità, quale paesaggio riverberato di trionfale serenità in quei nomi di umanisti, in quell’immaginato girare per Roma (il meglio del mito romano di Baldini deriva da questi versi!), in quel fantastico e semplicissimo sorgere dei luoghi dell’anticità.

Qui – dica – il Circo, qui il Foro romano,

qui fu Suburra, e questo è il sacro clivo;

qui Vesta il tempio e qui il solea aver Iano.

(vv. 133-135)

Tono di nudità gustosa che continua nella limitazione del desiderato soggiorno ferrarese («piú là d’Argenta, o piú qua del Bondeno», v. 162) e che ben può dar luogo ad un finale di scherzo movimentato (l’immagine di madonna Ambra, la rapida favoletta del padre canonico): misurato sul passo di musica poco profonda, ma sincera e vitale, che distingue l’esperienza poetica delle Satire. Non grande poesia, non la musica dell’Orlando, ma una poesia calcolata e nutrita ben al di sopra degli altri tentativi ariosteschi.


1 Si veda la Satira al Bembo in relazione con la lettera allo stesso realmente spedita.

2 Per l’ordine delle Satire seguo quello proposto da C. Bertani, Sul testo e sulla cronologia delle satire di Ludovico Ariosto, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXVIII, 1926, pp. 256-281, e LXXXIX, 1927, pp. 1-36. Per il testo adotto ora l’edizione citata a cura di C. Segre.

3 Non è lontana da questo mondo, pur cosí bonario e sorridente, l’acuta luce realistica del Machiavelli, ed esempi tratti anche dall’Orlando ne renderebbero convinti, chiarendo e meglio colorando un mondo di altissima liberazione fantastica, ma estremamente concreto, partito da un’esperienza acuta e profonda.

4 L’Ariosto, che introdusse con effetti gustosi versi danteschi nell’Orlando, opera qui nelle Satire un’utilizzazione di energia dantesca a rilievo di ritmo, a movimento drammatico cui non è estranea la suggestione della terzina.

5 Passo di estrema importanza nella considerazione della poetica ariostesca del «cor sereno».